Dalla “Call to Action” alla “Action to Call”

Articolo scritto da Riccardo Maggiolo


La percezione e la pratica del lavoro è cambiata molto negli ultimi anni. Con il suo nuovo libro “Lavorare è da boomer – Dal culto alla cultura del lavoro”, Riccardo Maggiolo analizza e offre a manager e imprenditori metodi e direttive per rendere più attrattiva e la propria organizzazione sia internamente che esternamente – oggi l’autore ci offre un estratto dalla sua pubblicazione.

Che cosa vuol dire essere autentici? In una battuta, si potrebbe rispondere che significa “esplicitare i propri interessi”. Che cosa ci rende fastidiosa la pubblicità, a parte la sua invasività? Il fatto che i suoi interessi, anche se chiari, non sono espliciti. Ci dice che siamo importanti, meritevoli, o che possiamo risolvere i nostri problemi ed essere felici, ma ce lo dice perché vuole venderci qualcosa. Non è davvero interessata a farci sentire bene, quanto piuttosto a farsi percepire bene, e per farlo è disposta a dire cose che non pensa o a presentarsi per quello che non è. Insomma, per vendere si svende – l’esatto opposto dell’autenticità.

Tutto questo lo sappiamo benissimo, razionalmente. Oramai tutti o quasi abbiamo imparato che, se vuoi farti pubblicità, più di cercare di apparire il migliore destando ammirazione è meglio cercare di sembrare autentico generando confidenza. Allo stesso tempo, non possiamo evitare di sentire che c’è qualcosa che non funziona; che sì, una buona pubblicità può strapparci una risata o persino una lacrima, e quindi farci provare una certa simpatia, ma da qui a fidarsi ce ne passa.

I pubblicitari giurano che questa simpatia ci rimane in qualche modo “attaccata”, per cui, quando vedremo il prodotto al supermercato o avremo bisogno del servizio in questione, ci ricorderemo della pubblicità e lo acquisteremo. Per questo, il tentativo della maggioranza delle agenzie di comunicazione è quello di creare pubblicità quanto più memorabili possibile. Tuttavia, se questo approccio poteva sembrare credibile fino a qualche tempo fa, oggi lo sembra assai meno.

Un tempo le pubblicità erano relativamente poche, o quanto meno limitate a certi contesti; oggi invece la pubblicità è ovunque – o meglio, siamo noi a essere sempre incollati a uno schermo, e quindi sotto il suo tiro costante. Siamo così assuefatti alle sue richieste di attenzione, e così esperti di tutti i suoi trucchi per farci cliccare, sottoscrivere, condividere, che nulla sembra impressionarci più. Viceversa, basta un nonnulla per tramutare una pubblicità in un disastro reputazionale, oppure in un grosso dibattito in cui il brand sarà portato al centro del discorso pubblico, ma i cui benefici per l’azienda sono tutti da provare.

Un’altra convinzione piuttosto diffusa è che i veri risultati di una campagna di comunicazione e di marketing si vedano solo nel medio-lungo termine. Investendo in maniera costante nel diffondere il proprio brand, alla fine le persone cominceranno ad associarlo a certi tipi di prodotti e servizi, finendo per sceglierlo poiché affidabile. C’è del senso in questo ragionamento, ma c’è anche da chiedersi: quali e quanti spazi nel mercato e nell’immaginario dei consumatori sono rimasti a disposizione? Che speranze ha oggi un’impresa di competere con le multinazionali attive nel loro settore e i loro colossali investimenti in marketing? E queste ultime, invece, quanto devono spendere per provare a modificare la percezione del loro brand?

Ne deriva un’ulteriore domanda: che cosa può fare un’organizzazione, un’azienda, un brand, per farsi conoscere e attrarre nuovi clienti? Più che persuadere dovrebbe ispirare. Il cambiamento non è da poco: significa passare dalla “call to action” alla “action to call”, vale a dire dall’invito o stimolo a fare qualcosa alla necessità di attivarsi per convincere le persone a prestare attenzione a quello che si sta facendo, e provarne simpatia. Vuol dire agire per primi invece di provare a far agire gli altri; in altre parole ancora, significa cercare di avanzare una vera proposta invece di una malcelata richiesta.

“Action to call” significa mettere in atto azioni che abbiano come scopo primario quello di rinforzare e rinsaldare la percezione del valore a cui l’azienda si è ancorata, e come scopo secondario quello di aumentare internamente fedeltà e fiducia ed esternamente attenzione e benevolenza. Il tutto con un approccio che deve essere sentito e genuino, poiché non è possibile pensare di utilizzarlo per ingannare le persone: in particolare all’interno dell’organizzazione, ma anche al suo esterno.

Per esempio, non si può pensare che un’iniziativa filantropica pensata e messa in atto soprattutto per un tornaconto di immagine non sia percepita come strumentale dai propri dipendenti, e sarebbe ingenuo pensare che i clienti reali e potenziali, scafati e pronti all’accusa come sono oggi, possano trovarla davvero convincente. Anzi, c’è il serio rischio che possano reputarla offensiva, provocando un grave danno di immagine.

Qui pare sorgere una sorta di paradosso: se lo scopo è quello di aumentare l’attrattività della propria organizzazione verso l’esterno, come si può raggiungerlo senza provare in prima istanza a ottenere proprio quel risultato? A pensarci bene, però, questa situazione è tutt’altro che rara. Anzi, tutti ne abbiamo avuto esperienza in qualche modo. È infatti in un certo senso la tipica situazione in cui ci si trova quando si è invaghiti di qualcuno ma si sa bene che dichiararsi subito non è l’approccio che ci porterà al risultato desiderato. Occorre allora mettere in atto una strategia seduttiva fatta di azioni indirette che portino la persona a interessarsi a noi senza mostrarle in modo troppo esplicito di essere interessati a lei.

È necessario quindi attrarre attenzione, ma sarebbe un errore pensare di farlo apparendo diversi da ciò che siamo. In tal caso la finzione non durerà quasi mai a lungo, e anche nei rari casi in cui dovesse funzionare genererebbe una relazione basata sulla menzogna, e che quindi non può sopravvivere. Le cose da fare allora sono due: raccogliere informazioni sulla persona da cui siamo attratti e migliorare la nostra immagine ai suoi occhi. Bisogna, insomma, scegliere di farsi scegliere invece di richiederlo.

Per quanto riguarda il primo aspetto, è fondamentale capire che nessuno o quasi ha più un mercato di massa. Salvo rarissime eccezioni, anche le aziende più grandi o che producono beni di ampio consumo occupano solo una parte del loro mercato. Un’organizzazione può avere un grande successo anche solo soddisfacendo appieno l’1% dei suoi acquirenti di riferimento, ma questo mercato deve coinvolgerlo, e per farlo è necessario conoscerlo.

Conoscere il proprio mercato non significa però tanto basarsi sui dati raccolti sul web o durante i processi di vendita; significa parlare con le persone, incontrarle, abitare i loro ambienti. Ritornando alla metafora del corteggiamento, non basta basarsi sul profilo social di una persona per capire come sedurla: bisogna capirne i linguaggi, i pensieri e le priorità. Per farlo è necessario abitare i contesti che frequenta, e magari incontrarla.

Perciò, un’organizzazione deve frequentare – e, nel caso, anche creare o promuovere – i contesti fisici e sociali in cui i suoi clienti sono attivi o sensibili. Questo per esempio significa non limitarsi a pubblicizzare un’offerta, ma costruirla anzitutto coinvolgendo il cliente; non architettare azioni promozionali sempre più attraenti, ma spiegare che cosa significa scegliere il proprio prodotto o servizio; non tanto promuovere un valore, ma dare vita ad azioni concrete e verificabili che dimostrino che a quel valore ci si tiene.

Di nuovo: il concetto fondamentale è che l’azione induce al richiamo, e non il contrario. Se un tempo alle organizzazioni era sufficiente “mettersi un bel vestito” per risultare attraenti, ora il pubblico è più attento e diffidente, e non solo è necessario misurarsi con molti altri pretendenti, ma bisogna anche dare prova delle proprie qualità alle persone giuste. Non ha senso continuare a impegnarsi in gare di bellezza, né fingere di essere chi non si è per attrarre solo un’attenzione fugace. Serve agire nell’autenticità per sviluppare un rapporto profondo con quell’unica persona o pubblico che conta.


Articolo scritto da Riccardo Maggiolo

Formatore, consulente e speaker specializzato nell’aiutare le organizzazioni a capire come diventare attrattive per le persone, e in particolare per i giovani.

Autore di quattro libri, saggi e manuali sul lavoro. Ultimo: “Lavorare è da boomer – Dal culto alla cultura del lavoro” e opinionista per Huffington Post Italia. Speaker @TEDxUdine 2024 e @TEDxAlessandria 2016.